Autore: Zeno Brusa

  • Partita IVA estera e lavoro in Italia

    Partita IVA estera e lavoro in Italia

    In questo contenuto si analizza la possibilità di svolgere un’attività di lavoro in Italia con una partita IVA estera, un’attività di per sé lecita, ma che ha notevoli implicazioni e presenta il rischio di essere tassati nel nostro paese qualora ricorrano determinate condizioni.

    Sono numerosi gli italiani che si trasferiscono all’estero, aprendo una partita IVA nel nuovo paese di residenza, ma che continuano a mantenere forti legami con l’Italia. Questo può accadere in ragione della clientela o del luogo di svolgimento dell’attività. L’articolo analizza le implicazioni fiscali per un soggetto non residente che lavora in Italia con una partita IVA estera, tralasciando il tema della residenza fiscale di tale persona e l’eventuale esterovestizione personale, per i quali si rimanda all’apposito contenuto.

    Ad apposito approfondimento si rimanda anche per le implicazioni ai fini IVA.

    Tassazione dei lavoratori autonomi non residenti in Italia

    Per quanto riguarda i soggetti non residenti che esercitano un’attività professionale in Italia, l’art. 23, comma 1, lettera d) del TUIR stabilisce che tutte le attività svolte nel territorio italiano rientrano nell’ambito di imposizione fiscale nazionale, indipendentemente dall’esistenza di una base fissa. Questo implica che anche una consulenza fornita in Italia da un professionista estero, recatosi presso la sede o un’unità locale di un’azienda italiana, è soggetta a tassazione italiana.

    Tuttavia, le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia assegnano, di norma, la potestà impositiva allo Stato italiano solo qualora il professionista non residente disponga di una base fissa nel paese. Al di là dei casi in cui la presenza di una base fissa è evidente, ad esempio, un avvocato straniero con un secondo studio in Italia, occorre valutare con attenzione le situazioni in cui viene concesso l’uso continuativo di un locale. Se il professionista che svolge il lavoro in Italia attraverso una partita IVA estera ha la piena disponibilità di tale spazio, esso potrebbe essere considerato una base fissa ai fini fiscali.

    Di contro, se il servizio professionale è reso all’estero, non si configura alcuna tassazione in Italia. Per questo motivo, ai sostituti d’imposta italiani che intrattengono rapporti con professionisti non residenti si raccomanda sempre richiedere una dichiarazione scritta, in cui il professionista attesti di essere fiscalmente residente all’estero e di aver svolto la prestazione al di fuori del territorio italiano.

    L’art. 25, comma 2, del DPR 600/73 dispone che i compensi erogati a soggetti non residenti siano soggetti a una ritenuta d’imposta del 30%. Tuttavia, tale ritenuta non deve essere applicata nei casi in cui le prestazioni siano effettuate all’estero o quando i compensi vengano versati alla base fissa italiana di un soggetto non residente.

    In quest’ultima ipotesi, i professionisti non residenti vengono assimilati ai residenti e sono tenuti a determinare in maniera analitica i redditi prodotti dalla base fissa, sui quali si applica una ritenuta d’acconto del 20%, ai sensi dell’art. 25, comma 1, del DPR 600/73.

    Prassi dell’Agenzia delle Entrate

    La Risoluzione n. 154/2009 dell’Agenzia delle Entrate, riguardante il trattamento fiscale dei compensi percepiti in Italia da una base fissa di una società professionale estera, ha confermato l’applicazione della ritenuta d’acconto del 20%. Tale posizione si basa sull’idea che la presenza di una base fissa in Italia comporti un grado di radicamento economico tale da assimilare il soggetto estero a un residente dal punto di vista fiscale. Questo principio è stato ribadito anche nella risposta a interpello n. 429 del 2019.

    In contrasto con questo orientamento, la Risposta a interpello n. 285 del 2022 dell’Agenzia delle Entrate ha assunto una posizione differente, stabilendo che i compensi versati da un committente italiano a un consulente non residente, ma con base fissa in Italia, siano soggetti a una ritenuta a titolo d’imposta del 30%.

    Infine, per quanto riguarda il regime fiscale dei compensi corrisposti per attività di lavoro autonomo svolta in Italia da un soggetto che successivamente si è trasferito all’estero, la risposta a interpello n. 512 del 2019 ha chiarito che si applica la ritenuta a titolo d’imposta del 30%. Ciò vale anche se i compensi si riferiscono a un periodo in cui il professionista era residente in Italia, ma sono stati percepiti in un esercizio fiscale successivo, quando il soggetto era ormai fiscalmente non residente.

    Esempi di Convenzioni contro le doppie imposizioni

    Nella valutazione delle specifiche situazioni in cui un soggetto con partita IVA estera svolge un’attività di lavoro in Italia, devono essere analizzate le singole Convenzioni contro le doppie imposizioni , alcune delle quali presentano regole particolari per il lavoro autonomo.

    L’articolo 14, paragrafo 1, delle Convenzioni tra Italia e Olanda e tra Italia e Spagna, così come accade nella maggior parte degli accordi internazionali stipulati dall’Italia, stabilisce che i redditi derivanti da lavoro autonomo siano tassabili esclusivamente nello Stato di residenza del professionista. Tuttavia, se quest’ultimo dispone in modo abituale di una base fissa nell’altro Stato per l’esercizio della sua attività, anche quest’ultimo Stato ha il diritto di tassare i redditi, limitatamente alla quota attribuibile a tale base fissa.

    Un esempio pratico è fornito dalla risposta all’interpello n. 53 del 2023, in cui l’Agenzia delle Entrate ha approfondito il concetto di base fissa analizzando il caso di un professionista residente in Spagna. Tale oggetto svolgeva attività di lavoro autonomo sia nel proprio Paese che in Italia, dove aveva soggiornato per un totale di 124 giorni nel corso dell’anno fiscale. In tale contesto, l’Agenzia ha sottolineato che, per determinare l’esistenza di una base fissa, è essenziale il requisito della fissità, che implica la presenza di un luogo identificabile e utilizzato in modo continuativo, sebbene non necessariamente per la maggior parte del periodo d’imposta.

    In definitiva, l’accertamento dell’esistenza di una base fissa in Italia per il professionista non residente dipende dal suo effettivo potere di utilizzo del luogo ai fini dell’attività lavorativa, dalla durata e dalla consistenza della sua presenza in tale sede, nonché dalle specifiche attività svolte. Il tempo di permanenza, da solo, non è un criterio determinante per questa valutazione.

    Particolarità rispetto ai trattati standard si riscontrano nella Convenzione tra Italia e Thailandia, che prevede la tassazione in Italia nei seguenti casi: se il residente thailandese soggiorna in Italia per più di 40 giorni nell’anno fiscale, oppure se i compensi gli vengono corrisposti da un’impresa italiana o da una stabile organizzazione italiana di una società con sede all’estero. Un’ulteriore particolarità si trova nella Convenzione tra Italia e Cina, che consente l’imposizione fiscale in Italia non solo qualora il professionista disponga di una base fissa, ma anche nel caso in cui soggiorni nel Paese per più di 183 giorni nell’arco dell’anno.

    Un caso ancora più particolare è rappresentato dall’articolo 14 della Convenzione tra Italia e San Marino, in base alla quale i redditi derivanti dall’attività professionale di un soggetto residente in uno dei due Stati possono essere tassati anche nell’altro Stato, in base alla normativa interna di quest’ultimo. Ciò significa che, per un professionista sanmarinese, i compensi possono essere assoggettati a imposizione in Italia, a condizione che siano territorialmente rilevanti, anche se il professionista non dispone di una base fissa nel Paese.

    Nozione di base fissa ai fini convenzionali

    Per definire il concetto di base fissa, è necessario fare riferimento ai criteri generali stabiliti dall’articolo 5 del modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, che richiedono, da un lato, la presenza di una sede fissa di affari, dall’altro, l’effettivo svolgimento dell’attività imprenditoriale da parte della società o dell’ente estero attraverso tale struttura.

    Secondo il Commentario al medesimo articolo, per determinare l’esistenza di una stabile organizzazione non è rilevante il titolo giuridico con cui l’impresa utilizza la sede fissa, bensì il fatto di averne la disponibilità effettiva. Questo significa che l’impresa può possedere la struttura, averla in affitto, in leasing o semplicemente poterla utilizzare stabilmente.

    Applicando in via analogica questi principi alle attività di lavoro autonomo, si può concludere che uno studio professionale (ad esempio di un avvocato, medico o ingegnere) situato in un altro Stato costituisce una base fissa. Tuttavia, vi sono casi particolari in cui il professionista si reca direttamente presso la sede del cliente per svolgere la propria attività. In tali circostanze, è opportuno rifarsi ai principi espressi nei paragrafi 12-15 del Commentario all’articolo 5 del modello OCSE, secondo cui il requisito della fissità dipende dalla possibilità di utilizzare determinati locali, anche se appartenenti a terzi, in modo sufficientemente continuativo. Seguendo lo stesso principio, un professionista residente all’estero che si reca sporadicamente presso un cliente italiano per esaminare documentazione, monitorare lo stato di avanzamento dei lavori o negoziare il compenso, non può essere considerato titolare di una base fissa nel nostro paese. Al contrario, se uno studio italiano mette stabilmente a disposizione del professionista residente all’estero un locale per l’esercizio della sua attività, si potrebbe riscontrare la presenza di una base fissa in Italia.

    Cassazioni più recenti

    La sentenza della Corte di Cassazione n. 2286 del 31 gennaio 2025 ha ulteriormente approfondito la nozione convenzionale di base fissa per un professionista, evidenziando che la semplice disponibilità di locali in un altro Stato non è sufficiente a determinare l’esistenza di una base fissa. Quest’ultima, invece, si configura quando vi è un “centro unico di interessi per lo svolgimento dell’attività professionale nello Stato estero”, indipendentemente dal fatto che il professionista utilizzi sempre lo stesso spazio fisico. L’elemento essenziale, secondo la Corte, è il carattere continuativo della permanenza del professionista in quel Paese.

    Sulla base di questa interpretazione, una persona che opera in modo costante in un altro Stato potrebbe essere considerata titolare di una base fissa anche se il luogo di lavoro cambia di volta in volta. Inoltre, la Cassazione ha ribadito che, secondo la riserva formulata dall’Italia all’articolo 7 del modello OCSE, la nozione di base fissa non equivale a quella di stabile organizzazione, ma rappresenta qualcosa di meno. Perché si configuri una base fissa, è sufficiente che l’attività venga svolta in modo continuativo e con modalità analoghe a quelle adottate nel Paese di residenza, senza che sia necessario un effettivo titolo di disponibilità sui locali.

    Al fine di evitare eventuali contestazioni, è opportuno limitare e specificare la presenza del professionista in uno Stato estero sia in termini di durata sia per quanto riguarda l’uso di spazi e attrezzature. A tal proposito, è consigliabile inserire clausole dettagliate nella lettera di incarico.

    Home working per i professionisti

    Infine, in alcuni casi, anche l’esercizio dell’attività di lavoro autonomo dalla propria abitazione può configurare una base fissa al verificarsi di determinate condizioni, da valutare caso per caso. I paragrafi 18 e 19 del Commentario all’articolo 5 del modello OCSE forniscono un esempio emblematico: una consulente che risiede stabilmente in un altro Stato e svolge la propria attività dalla sua abitazione potrebbe essere considerata titolare di una base fissa, in quanto la sua casa rappresenterebbe il centro della sua attività professionale in quel Paese.

    Il caso particolare dei registi cinematografici

    Secondo quanto chiarito nella risposta all’interpello n. 129 del 2023, i compensi percepiti da registi non residenti per attività svolte in Italia rientrano nella categoria delle prestazioni professionali ai fini convenzionali (art. 14 del Modello OCSE), e non sono invece soggetti alle disposizioni specifiche previste per artisti e sportivi di cui all’art 17 del Modello OCSE.

    Questo implica che, in assenza di una base fissa, i compensi per il lavoro volto in Italia attraverso una partita IVA estera, saranno imponibili solamente nello Stato di residenza del percettore e non sono assoggettati alla ritenuta d’imposta del 30% prevista dall’art. 25, comma 2, del DPR 600/73. Simili conclusioni sono valide anche anche nel caso in cui i redditi siano stati erogati a una LLC, una partnership statunitense fiscalmente trasparente, interamente detenuta dal regista. Per l’applicazione dei benefici convenzionali alle partnership estere, si rimanda all’apposito contenuto.

    Il caso particolare di soggetti non residenti con partita IVA italiana

    Le risposte agli interpelli nn. 384 e 387 esaminano il caso opposto a quello di una partita IVA estera che svolge un lavoro in Italia. E’ il caso di soggetti non residenti che operano nel nostro paese attraverso una partita IVA italiana.

    Convenzione Italia – Thailandia

    La risposta n. 384/2023 riguarda un cittadino italiano intenzionato a trasferirsi in Thailandia, con l’obiettivo di avviare un’attività professionale in loco. Contestualmente, l’interessato vorrebbe aprire una partita IVA in Italia per emettere fatture relative a determinate prestazioni, sebbene nessuna di esse sia destinata a clienti italiani.

    Come illustrato in precedenza, l’art. 14 della Convenzione tra Italia e Thailandia, per quanto concerne i redditi da lavoro autonomo, prevede la tassazione in Italia se si verifica almeno una delle seguenti condizioni:

    • il residente thailandese trascorre più di 40 giorni all’anno in Italia;
    • i compensi provengono da un’impresa italiana;
    • i compensi sono corrisposti da una stabile organizzazione italiana di un’impresa con sede all’estero.

    Poiché queste condizioni sono alternative, anche solo la permanenza in Italia per oltre 40 giorni o l’esecuzione di una prestazione per un committente italiano determinerebbe l’obbligo di tassazione in Italia.

    Convenzione Italia – Cina

    La risposta n. 387/2023 affronta, invece, il caso di un cittadino italiano residente fiscalmente in Cina che intende aprire una partita IVA in Italia per fornire servizi di consulenza a società situate nell’Unione Europea. Tale soggetto possiede un immobile in Italia, il quale potrebbe configurare una stabile organizzazione nel territorio nazionale.

    Secondo il Commentario all’art. 5 del modello OCSE, la mera detenzione di una posizione IVA in un Paese non implica automaticamente l’esistenza di una stabile organizzazione ai fini dell’imposizione sul reddito. Tuttavia, l’eventuale configurazione dell’immobile italiano come stabile organizzazione dovrebbe essere valutata alla luce della definizione di sede fissa di affari fornita dallo stesso art. 5.

    Di norma, le Convenzioni sottoscritte dall’Italia stabiliscono che l’attività di lavoro autonomo sia imponibile nello Stato in cui viene esercitata solo se il professionista dispone in tale Stato di una base fissa. Nella risposta in commento, la base fissa potrebbe essere rappresentata dall’immobile italiano, purché le prestazioni lavorative vengano svolte effettivamente in tale luogo, fermo restando il principio per cui occorre distinguere il trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette da quello ai fini dell’IVA.

    Tuttavia, la Convenzione tra Italia e Cina presenta particolarità rispetto ad altri trattati. L’art. 14, come anticipato, prevede la tassazione in Italia non solo qualora il residente cinese disponga di una base fissa per l’esercizio della propria attività professionale, ma anche nel caso in cui il medesimo soggiorni in Italia per un periodo superiore a 183 giorni in un anno. In assenza di almeno una di queste condizioni, i redditi derivanti dall’attività professionale sono imponibili esclusivamente nello Stato di residenza del beneficiario.

    Conclusioni

    In base a quanto sopra esaminato, risulta dunque opportuno affidarsi ad un professionista che sia in grado di determinare a quali condizioni la partita IVA estera che svolge un’attività di lavoro in Italia sia quivi soggette a tassazione e quali sono i rischi in termini sanzionatori.

  • Cessione di partecipazioni in società estere ereditate

    Cessione di partecipazioni in società estere ereditate

    Su quale valore viene calcolata la plusvalenza relativa alla cessione di partecipazioni in società estere ereditate da un contribuente italiano?

    Ai sensi dell’art. 67 del TUIR. sono imponibili in capo ai soggetti residenti, anche se di fonte estera, sia le plusvalenze relative a partecipazioni qualificate, sia le plusvalenze relative a partecipazioni non qualificate

    Per le persone fisiche non imprenditori, l’aliquota applicabile è il 26%, a meno che non si tratti di partecipazioni detenute in un soggetto a regime fiscale privilegiato, nel qual caso la plusvalenza è imponibile con i regolari scaglioni IRPEF nella misura del 100% del suo ammontare.

    La tassazione integrale non si applica, tuttavia, quando la partecipazione nel soggetto a regime fiscale privilegiato sia quotata nei mercati regolamentati.

    Inoltre, ai sensi dell’art. 68 co. 4 del TUIR, la tassazione integrale può essere evitata quando il socio residente in Italia dimostra che dalle partecipazioni non sia conseguito l’effetto di localizzare i redditi nel paradiso fiscale. Per approfondimenti circa le partecipazioni detenute in paesi a regime fiscale privilegiato, si rimanda all’apposito contenuto.

    Costo o valore di acquisto delle partecipazioni

    Quanto approfondito in questo articolo è la determinazione del costo o valore di acquisto delle azioni o quote ai fini del calcolo delle plusvalenze di natura finanziaria, così come determinato ai sensi dell’art. 68 co. 6 del TUIR. In particolare, ci si focalizza sulla cessione di partecipazioni in società estere ereditate da un soggetto non imprenditore residente in Italia.

    Per le partecipazioni acquisite tramite successione, la norma sopra menzionata precisa che si assume quale costo fiscale per l’erede il valore dichiarato o definito ai fini dell’imposta sulle successioni (quota parte del Patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio pubblicato o dall’ultimo inventario redatto, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti) oppure, qualora le partecipazioni non siano state assoggettate all’imposta sulle successioni ai sensi dell’art. 3 co. 4-ter del DLgs. 31.10.90 n. 346, il costo fiscale della partecipazione corrisponde al valore normale della stessa alla data di apertura della successione, secondo quanto previsto dall’art. 9 del TUIR.

    Nel caso in cui le partecipazioni siano quotate nei mercati regolamentati, invece, il valore è assunto nella media dei prezzi rilevati sul marcato nell’ultimo trimestre anteriore all’apertura della successione.

    Inoltre, il costo o il valore di acquisto preso come base per la determinazione della plusvalenza imponibile deve essere aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione, rappresentati, secondo quanto riportato nella C.M. 24.6.98 n. 165/E, da “tutte le spese e gli oneri strettamente inerenti all’acquisto delle attività finanziarie della cui cessione si tratta (ad esempio: l’imposta di successione e donazione, le spese notarili, le commissioni d’intermediazione, la tassa sui contratti di borsa, ecc.)“.

    Non dovrebbero essere computati, invece, gli oneri connessi alla mera gestione delle partecipazioni, in quanto non direttamente correlati alla produzione delle plusvalenze imponibili, così come le eventuali imposte (come l’IVAFE) che gravano sul possesso.

    Un esempio concreto

    Un esempio pratico può chiarire meglio il valore da attribuire ai fini del calcolo della plusvalenza.

    Nel caso esaminato nella risposta all’interpello n. 132/2024, un soggetto fiscalmente residente in Italia aveva ereditato un pacchetto di azioni relative a una società francese quotata.

    In questo caso il valore da assumere ai fini della successione, come anticipato è la media dei prezzi rilevati sul marcato nell’ultimo trimestre anteriore all’apertura della medesima.

    Poiché al momento del decesso il defunto risultava residente in Italia, l’eredità era soggetta all’imposta di successione sia in Italia che in Francia, secondo le rispettive normative nazionali.  In questo contesto, dato che i titoli ereditati si considerano situati in Francia (in virtù della sede della società), la legislazione fiscale francese prevedeva l’applicazione dell’imposta di successione locale, con un’aliquota pari al 60%.

    Di conseguenza, il contribuente italiano ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se l’imposta versata in Francia potesse essere considerata un costo accessorio di acquisizione delle azioni, rilevante per la determinazione della plusvalenza in caso di successiva cessione.

  • Tassazione immobili all’estero

    Tassazione immobili all’estero

    Il possesso o la cessione di immobili situati all’estero può generare redditi assoggettati a tassazione in Italia. Inoltre, il possesso di tali immobili da parte di persone fisiche, società semplici ed enti non commerciali (tra cui i trust) prevede la compilazione del quadro RW, ai fini del monitoraggio fiscale e comporta il pagamento dell’IVIE con aliquota dell’1,06%.

    Il possesso di immobili all’estero genera obblighi fiscali in Italia?

    Sì. Le persone fisiche, le società semplici e gli enti non commerciali (inclusi i trust) che possiedono immobili all’estero devono:

    • compilare il quadro RW per il monitoraggio fiscale (art. 4 DL 167/90);
    • versare l’IVIE (imposta sul valore degli immobili situati all’estero) con aliquota dell’1,06% (0,76% fino al 31/12/2023).

    Come si tassano i redditi da locazione di immobili esteri?

    Secondo l’art. 6 del Modello OCSE, gli Stati possono esercitare potestà impositiva concorrente.

    Questo significa che il reddito da locazione è tassabile sia nello stato in cui è ubicato l’immobile, sia nello stato di residenza del percettore del reddito.

    In Italia, l’art. 67, co. 1, lett. f) e l’art. 70, co. 2 del TUIR disciplinano la tassazione dei canoni percepiti da soggetti non imprenditori. La tassazione avviene così:

    • Se il reddito è tassato nel Paese estero (es. Francia), questo deve essere dichiarato in Italia senza deduzione forfetaria del 15%, ma con credito per imposte estere (art. 165 TUIR).
    • Se il Paese estero non tassa i canoni (es. Emirati Arabi), in Italia si dichiara il canone, applicando la deduzione forfetaria del 15%, ma senza possibilità di scomputare alcun credito d’imposta.

    Come si determina il reddito da dichiarare in Italia?

    Secondo la risoluzione DRE Lombardia n. 12155 del 15/02/2010, il reddito è calcolato sottraendo dalle somme percepite le spese deducibili secondo la normativa del Paese in cui è situato l’immobile, solo se tali somme non sono già state tassate all’estero.

    Esempio: canoni percepiti 36.000 €, spese deducibili estere 10.000 €, reddito imponibile in Italia = 26.000 € (se non tassato all’estero).

    Cosa succede in caso di disallineamento tra periodi d’imposta?

    Un caso peculiare si verifica quando il periodo d’imposta dello Stato in cui è situato l’immobile non corrisponde a quello italiano. Ciò accade, ad esempio, nel caso di un contribuente residente in Italia che possieda immobili nel Regno Unito.

    L’art. 70, co. 2 del TUIR stabilisce che, in caso di periodo fiscale estero diverso da quello italiano (es. UK: 6 aprile – 5 aprile), il reddito va imputato all’anno fiscale italiano in cui termina il periodo estero.

    Es.: periodo estero 06/04/2024 – 05/04/2025 → tassazione in Italia nel 2025.

    Il credito per imposte estere (art. 165 TUIR) si può detrarre nello stesso anno fiscale in cui il reddito è dichiarato (circ. 9/2015).

    Come si tassano le plusvalenze da cessione di immobili esteri?

    Secondo l’art. 13 del Modello OCSE, la tassazione può avvenire sia nello Stato in cui è ituato l’immobile che nello Stato di residenza del percettore del reddito.

    In Italia:

    • Le plusvalenze sono tassate secondo l’art. 67 TUIR, con criterio di cassa.
    • Si può optare per:
    • IRPEF ordinaria (scaglioni);
    • imposta sostitutiva del 26%, su richiesta al notaio (art. 1, co. 496, L. 266/2005, modificato dal DL 124/2019).

    La plusvalenza è imponibile solo se:

    • l’immobile è ceduto entro 5 anni dall’acquisto/costruzione (art. 67, co. 1, lett. b, TUIR);
    • non è stato abitazione principale del venditore o dei suoi familiari per la maggior parte del possesso.

    Se invece la vendita avviene dopo cinque anni o riguarda un immobile adibito a prima casa, la plusvalenza non è soggetta a tassazione.

    Come funziona la tassazione delle plusvalenze da partecipazioni in società immobiliari estere?

    Un caso di particolare interesse riguarda la cessione di partecipazioni in società immobiliari. In deroga alla regola generale, l’art. 13, paragrafo 4, del modello OCSE stabilisce che le plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni il cui valore dipende per oltre il 50%, direttamente o indirettamente, da beni immobili situati in un altro Stato contraente possono essere tassate in tale Stato.

    Tuttavia, il principio della tassazione concorrente sulle plusvalenze legate alle società immobiliari è stato recepito solo in un numero limitato di Trattati sottoscritti dall’Italia. La maggior parte delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dal nostro Paese, infatti, non contiene disposizioni specifiche in merito e si limita ad applicare le regole generali, secondo cui la tassazione delle plusvalenze avviene esclusivamente nel Paese di residenza del venditore.

    Chi è tenuto a compilare il quadro RW?


    I contribuenti residenti in Italia sono tenuti a riportare nel quadro RW tutti gli investimenti e le attività di natura patrimoniale detenuti all’estero, sia direttamente che indirettamente o tramite soggetti interposti.

    Cosa si intende per soggetto interposto ai fini del monitoraggio fiscale?
    La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 10 del 2015 ha approfondito il tema dell’interposizione chiarendo, a titolo esemplificativo, che rientra nella definizione di soggetto fittiziamente interposto una società situata in un Paese a fiscalità privilegiata, priva di obblighi contabili, laddove la struttura societaria sia meramente formale e la reale titolarità dei beni sia da ricondurre al socio.

    Quando un trust è considerato interposto?


    I trust sono considerati soggetti interposti quando il patrimonio in essi conferito rimane nella disponibilità del disponente o rientra nella sfera patrimoniale dei beneficiari.

    Cosa succede se il trust è interposto?


    Nel caso in cui il trust si configuri come un mero schermo giuridico e la titolarità effettiva dei beni sia da attribuire ad altri soggetti, come il disponente o i beneficiari, il trust deve essere considerato interposto. Di conseguenza, sia il patrimonio che i redditi generati devono essere imputati ai soggetti che ne hanno la reale disponibilità.

    Come viene definito il titolare effettivo?


    Il titolare effettivo viene definito come la persona fisica che, pur non essendo formalmente il cliente, è colui per conto del quale il rapporto continuativo è instaurato, la prestazione professionale viene eseguita o l’operazione è realizzata.

    Ai sensi dell’art. 4 del DL 167/90, sono obbligati alla compilazione del quadro RW anche coloro che, pur non essendo titolari diretti di investimenti o attività finanziarie detenute all’estero, ne risultano i beneficiari effettivi.

    Gli immobili detenuti all’estero sono soggetti ad imposte patrimoniali?


    I beni immobili detenuti all’estero sono assoggettati ad IVIE (Imposta sul valore degli immobili situati all’estero) pari all’1,06%. Fino al 31.12.2023, l’aliquota applicata era dello 0,76%.
    L’imposta deve essere calcolata e dichiarata nel quadro RW del modello fiscale, unitamente all’IVAFE.

    Cosa cambia per i neo domiciliati con flat tax?

    I soggetti che aderiscono al regime dei neo domiciliati (art. 24-bis TUIR):

    • pagano un’imposta sostitutiva forfettaria di 100.000 o 200.000 euro (a partire da agosto 2023) su tutti i redditi di fonte estera ;
    • non sono tenuti a compilare il quadro RW per quanto riguarda gli immobili siti all’estero;
    • non devono versare l’IVIE per tutta la durata dell’opzione.

    La convenienza va valutata attentamente in relazione al valore del patrimonio estero.


  • Tassazione in Italia dei cittadini americani

    Tassazione in Italia dei cittadini americani

    Una tematica foriera di complicazioni e che richiede un’analisi approfondita è quella relativa alla tassazione in Italia dei cittadini americani.

    È frequente il caso di cittadini statunitensi o di soggetti in possesso di una Green Card, residenti in Italia ai fini fiscali.  Il caso può essere, quindi, anche quello di un cittadino italiano che per anni ha risieduto negli USA in possesso di una Green Card che fa ritorno in Italia ma che non vuole rinunciare alla Green Card statunitense nell’ottica di un futuro rientro in America, onde non dover di nuovo fare application per il permesso di soggiorno.

    Può accadere che questi soggetti, una volta traferitisi in Italia, continuino a percepire redditi di fonte americana e, di conseguenza, si trovino a dover presentare annualmente due dichiarazioni dei redditi, una in Italia ed una negli USA.

    Gli Stati Uniti, infatti, prevedono la tassazione su base mondiale non solo dei propri residenti, ma anche dei propri cittadini, anche se residenti all’estero.
    Salvo il caso in cui si rinunci alla cittadinanza americana, si tratta di casistiche da gestire con particolare attenzione per quanto concerne le dichiarazioni dei redditi.

    Come prima cosa analizziamo il tema della residenza fiscale, che determina il paese in cui un individuo è assoggettato a tassazione su base worldwide.

    Residenza fiscale in Italia

    Per maggiori approfondimenti si rimanda allo specifico contenuto, in questo articolo ci si limita a ricordare che la normativa italiana (art. 2 del TUIR) tratta i residenti fiscali e i non residenti fiscali in modo diverso. I primi sono tassati sul reddito mondiale, mentre i secondi sono tassati solo sul reddito di fonte italiana.

    Una persona fisica è considerata fiscalmente residente nel nostro Paese se, per la maggior parte dell’anno fiscale, quindi per almeno 183 giorni, soddisfa almeno uno dei seguenti criteri:

    • Iscrizione all’Anagrafe della Popolazione Residente.
    • Residenza: Dimora abituale in Italia.
    • Domicilio: Luogo in cui si sviluppano le principali relazioni personali e familiari.
    • Presenza fisica, contando anche le frazioni di giorno.

    Residenza fiscale negli USA

    A differenza di quanto fatto per l’Italia, per la quale, come detto, si rimanda ad uno specifico contenuto, per quanto riguarda gli Stati Uniti si approfondisce nel dettaglio il concetto, piuttosto complesso, di residenza fiscale.

    Criterio generale

    Negli Stati Uniti, il criterio base per la residenza fiscale è la cittadinanza. Tuttavia, ai sensi del § 7701(b)(1)(A) dell’Internal Revenue Code (IRC) del 1986, un soggetto può essere considerato resident alien se:

    1. Possiede una green card (permanent resident card) anche per un solo giorno nell’anno fiscale.
    2. Supera il substantial presence test (§ 7701(b)(3)).
    3. Chiede di essere trattato come residente tramite la “first year election” (§ 7701(b)(4)), in presenza di specifici requisiti.

    Un soggetto è nonresident alien (§ 7701(b)(1)(B)) se non è cittadino statunitense e non soddisfa nessuno dei criteri sopra elencati.

    Substantial presence test

    Un individuo è considerato fiscalmente residente negli USA se:

    • È stato fisicamente presente negli Stati Uniti per almeno 31 giorni nell’anno fiscale corrente.
    • La somma dei giorni di presenza negli ultimi 3 anni è almeno 183, calcolati come segue:
      • 100% dei giorni dell’anno in corso.
      • 1/3 dei giorni dell’anno precedente.
      • 1/6 dei giorni del secondo anno precedente.

    Esempio:
    Se un soggetto è stato presente negli USA per 120 giorni all’anno nel 2022, 2023 e 2024, il calcolo per il 2024 sarà:
    120 (2024) + 40 (1/3 di 120 nel 2023) + 20 (1/6 di 120 nel 2022) = 180 giorni → non residente fiscale.

    Eccezioni al substantial presence test (§ 7701(b)(3)(B)):
    Anche se il test è soddisfatto, il soggetto è considerato non residente se:

    1. È stato presente negli USA meno di 183 giorni nell’anno corrente.
    2. La sua tax home (luogo in cui il soggetto ha il suo luogo principale di lavoro, indipendentemente dal luogo in cui abita la famiglia) è in un Paese estero.
    3. Ha un legame più stretto con un altro Stato rispetto agli USA.

    First year election (§ 7701(b)(4))

    Uno straniero può optare per la residenza fiscale nell’anno precedente a quello in cui acquisisce lo status di residente se:

    • Non era residente nell’election year (né per green card né per il substantial presence test).
    • Non era residente nell’anno prima dell’election year.
    • È stato presente negli USA per 31 giorni consecutivi e per almeno il 75% del tempo tra il giorno di arrivo e la fine dell’anno.

    Primo anno di residenza fiscale

    Nel primo anno di residenza fiscale negli USA, un individuo può avere doppio status: nonresident alien e resident alien.

    • Regola generale (§ 7701(b)(1)(A)): se un soggetto diventa residente in un dato anno, ma non lo era nell’anno precedente, è considerato residente solo dalla data di inizio della residenza.
    • Residenza con green card (§ 7701(b)(2)(A)): se un soggetto ottiene la green card, ma non soddisfa il substantial presence test, è residente dal primo giorno in cui è stato presente negli USA come permanent resident.
    • Residenza per substantial presence test: se la residenza deriva dal substantial presence test, il soggetto è residente dal primo giorno in cui è presente negli USA.
      • Eccezione: Se un individuo è presente negli USA per meno di 10 giorni, questi possono essere ignorati se ha mantenuto un legame più stretto con un altro Paese.
      • Esempio:
        • Tizio arriva negli USA il 3 febbraio per una conferenza e riparte il 10 febbraio.
        • Ritorna negli USA il 10 marzo per rimanervi stabilmente.
        • La residenza inizia il 10 marzo, poiché tra il 3 e il 10 febbraio aveva ancora un legame più stretto con l’Italia.

    Ultimo anno di residenza fiscale

    Un individuo cessa di essere residente negli USA se:

    1. Lascia gli Stati Uniti e non vi ritorna nel resto dell’anno.
    2. Durante la restante parte dell’anno ha un legame più stretto con un Paese straniero.
    3. Non è più residente nell’anno successivo.

    Regole di fine residenza (Publication 519 – “U.S. Tax Guide for Aliens“):

    • Se la residenza fiscale derivava dal substantial presence test, termina nell’ultimo giorno di presenza fisica negli USA.
    • Se la residenza derivava dalla green card, termina il primo giorno in cui il soggetto non è più permanent resident.
    • In entrambi i casi, la cessazione della residenza è valida solo se il soggetto ha un legame più stretto con un altro Paese.

    La dichiarazione dei redditi di fonte USA dei cittadini americani residenti in Italia

    La casistica più complessa riguarda la tassazione dei cittadini americani che si trasferiscono in Italia, acquisendo la residenza fiscale ai sensi dell’art. 2 del TUIR e dell’art. 4 della Convenzione Italia-USA, e che percepiscono redditi di fonte statunitense.

    Per questa situazione, occorre fare riferimento all’art. 23 della Convenzione tra i due Paesi.

    Nel caso di cittadini americani residenti in Italia con redditi di fonte statunitense, l’eliminazione o la riduzione della doppia tassazione non avviene secondo la regola generale dell’art. 23, paragrafo 3, della Convenzione.

    Tale norma, infatti, prevede che l’Italia possa includere i redditi di fonte statunitense nel calcolo del reddito complessivo del contribuente, riconoscendo poi un credito d’imposta per le imposte già versate negli Stati Uniti.

    Tuttavia, questa prescrizione non si applica ai cittadini statunitensi residenti in Italia, poiché lo stesso paragrafo 3 esclude espressamente i casi di soggetti che possiedono anche la cittadinanza americana (par. 2(b) dell’art. 1).

    Articolo 1
    1. (…).
    2. Nonostante le disposizioni della presente Convenzione, ad eccezione del paragrafo 3 di questo articolo, uno Stato contraente può assoggettare ad imposizione:
    (a) i propri residenti (definiti ai sensi dell’articolo 4 (Residenti);
    e
    (b) i propri cittadini a motivo della cittadinanza, come se tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati Uniti d’America non esistesse alcuna Convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi o le evasioni fiscali.

    Per tali contribuenti, la Convenzione prevede invece l’applicazione dell’art. 23, paragrafo 4, che introduce un meccanismo di eliminazione della doppia imposizione articolato in due fasi:

    • Prima fase: Per i redditi di fonte USA esenti o tassati in modo ridotto negli Stati Uniti, se percepiti da un residente italiano con cittadinanza statunitense, l’Italia concede un credito d’imposta ai sensi dell’art. 165 del TUIR nei limiti della tassazione convenzionale (art. 23, paragrafo 4, lettera a).
    • Seconda fase: Dopo l’applicazione del credito d’imposta italiano iniziale, gli Stati Uniti riconoscono un ulteriore credito per le imposte effettivamente versate in Italia, al netto della detrazione già operata dall’Italia. Questo meccanismo estremamente complesso, previsto dall’art. 23, paragrafo 4, lettera b), si basa su una finzione giuridica di “resourcing”, per cui i redditi di fonte statunitense tassati in Italia vengono considerati, nella dichiarazione fiscale statunitense, come redditi di origine italiana, esclusivamente per la determinazione del credito d’imposta concesso dagli USA.

    Il caso specifico dei dividendi di fonte USA: credito italiano per le imposte pagate all’estero

    Per i dividendi provenienti dagli Stati Uniti e percepiti da persone fisiche residenti in Italia, si applica l’art. 27, comma 4, del DPR 600/73, che prevede una ritenuta a titolo d’imposta del 26% sull’intero ammontare.

    Qualora il dividendo venga riscosso tramite un intermediario residente, si applica il comma 4-bis dell’art. 27 del DPR 600/73, che prevede il principio, noto come “netto frontiera” e che dispone che la base imponibile per la ritenuta italiana sia determinata sottraendo le imposte estere già applicate.

    In pratica, se il dividendo percepito è di 100.000, gli USA possono applicare una ritenuta massima del 15%, mentre la ritenuta italiana del 26% si calcola sull’importo al netto della trattenuta statunitense (100.000 – 15.000 = 85.000).

    Per quanto riguarda la possibilità di detrarre la ritenuta estera dalle imposte italiane, il credito d’imposta ex art. 165 del TUIR non è riconosciuto per i dividendi soggetti al regime ordinario, in quanto tali redditi rientrano tra quelli assoggettati a ritenuta a titolo d’imposta ex art. 27, comma 4, DPR 600/73.

    Nel caso di percezione diretta del dividendo senza l’intermediazione di una banca residente, l’imposta sostitutiva del 26% deve essere versata in sede di dichiarazione dei redditi, nel quadro RM.

    L’Agenzia delle Entrate, con risoluzione n. 80/2007 e la risposta all’interpello n. 111/2020, ha stabilito che in tale circostanza la base imponibile dell’imposta sostitutiva sia il dividendo lordo (riprendendo l’esempio precedente, 100.000 e non 85.000).

    Anche in questo scenario, non è possibile beneficiare del credito d’imposta per le imposte estere, poiché il dividendo non viene incluso nel reddito complessivo in Italia.

    Tuttavia, le recenti sentenze della Corte di Cassazione n. 25698/2022 e n. 10204/2024 e la sentenza della C.G.T. I Siena n. 68/1/24, hanno aperto alla possibilità di detrarre l’imposta estera dall’imposta sostitutiva sui dividendi da dichiarare nel quadro RM. La Cassazione ha motivato tale possibilità con il tenore dell’art. 23 della Convenzione Italia-USA, che prevede il credito d’imposta solo nei casi in cui l’imposizione sostitutiva sia opzionale, riconoscendolo invece laddove l’imposizione sostitutiva sia obbligatoria, come nel contesto attuale. Pertanto, i contribuenti che non hanno detratto l’imposta estera possono richiedere il rimborso dell’eccedenza d’imposta pagata in Italia.

    Tuttavia, è probabile che l’Amministrazione finanziaria respinga tale richiesta, rendendo necessario un contenzioso tributario.

    Le somme rimborsabili ai sensi dell’art. 38 del DPR 602/73 corrispondono alla differenza tra l’imposta italiana pagata e quella che si sarebbe dovuta pagare con la detrazione della ritenuta estera. Ad esempio:

    • nel rigo RM12 della dichiarazione del percettore persona fisica non imprenditore deve essere indicata l’imposta sostitutiva del 26% calcolata sul dividendo lordo;
    • si potrebbe quindi avanzare richiesta di rimborso per l’imposta italiana pagata in eccesso, derivante dal mancato scomputo della ritenuta statunitense.

    Il caso specifico delle pensioni private di fonte USA

    Secondo l’art. 18 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti, che disciplina le pensioni private, il principio di imposizione è basato sullo Stato di residenza del percettore.

    Sia le pensioni derivanti da un’attività lavorativa cessata (art. 18, par. 1) sia le pensioni corrisposte da uno Stato nell’ambito della propria legislazione sulla sicurezza sociale (art. 18, par. 2) sono tassate esclusivamente nello Stato di residenza. Di conseguenza, una persona trasferitasi in Italia dopo aver lavorato negli USA sarà soggetta esclusivamente all’imposizione italiana sulla pensione americana, mentre gli Stati Uniti non potranno prelevare imposte su tale reddito e dovrà essere cura del percettore far presente la propria residenza fiscale italiana al soggetto che eroga la pensione.

    In tali circostanze, il pensionato potrebbe anche beneficiare dell’imposta sostitutiva del 7% prevista dall’art. 24-ter del TUIR per la quale si rimanda allo specifico approfondimento.

    Rientrano in questa disciplina le pensioni correlate a un precedente impiego, indipendentemente dalla forma di pagamento (periodica o in un’unica soluzione), includendo anche piani pensionistici integrativi come gli individual retirement accounts (IRA).

    Le pensioni di sicurezza sociale sono tassabili esclusivamente in Italia se l beneficiario è ivi residente, in deroga alla regola generale delle convenzioni generalmente stipulate dagli USA. Secondo la Technical Explanation, questa disposizione si applica sia a lavoratori privati che a ex dipendenti pubblici.

    Tuttavia, la situazione cambia qualora il oggetto residente fiscale in Italia abbia la cittadinanza statunitense o, come prospettato nella parte introduttiva, abbia mantenuto la Green Card.

    Dal momento che gli Stati Uniti tassano i propri cittadini ovunque essi risiedano, per evitare la doppia imposizione, si applica il meccanismo, anteriormente menzionato, previsto dall’art. 23, par. 4, della Convenzione:

    • In base alla lettera a), la pensione è tassata in Italia, che riconosce un credito d’imposta per le imposte USA nella misura “convenzionale”. Tuttavia, poiché l’art. 18 esenta tali redditi negli USA per i non cittadini, l’Italia non può concedere alcun credito.
    • In base alla lettera b), nella dichiarazione finale statunitense, il contribuente può detrarre le imposte italiane pagate sulla pensione.

    Il possesso di una doppia cittadinanza risulta un fattore determinante per la corretta applicazione delle norme fiscali alle pensioni USA percepite in Italia per quanto concerne le pensioni di sicurezza sociale. Nell’art. 1 § 2 lettera a) del Protocollo alla Convenzione Italia-Stati Uniti, infatti, viene prevista la tassazione esclusiva in Italia di tali pensioni (che in questo caso non andranno dichiarate negli Stati Uniti) se il percettore, residente fiscale in Italia e cittadino statunitense, ha anche la cittadinanza italiana.

    Infine, derogando al principio generale per cui gli Stati Uniti si riservano di assoggettare a imposizione i redditi dei propri cittadini, anche qualora residenti all’estero, vi sono talune eccezioni che riguardano proprio le pensioni. Nello specifico, l’art. 1 § 3 lettera a) della Convenzione, al ricorrere delle condizioni previste dal § 5, esclude dall’imposizione statunitense le pensioni disciplinate dai §§ 5 e 6 dell’art. 18, gli assegni alimentari per il coniuge o per il mantenimento dei figli.

    Monitoraggio fiscale di attività patrimoniali e finanziarie estere

    Da ultimo, non va dimenticato che i cittadini statunitensi che trasferiscono la propria residenza in Italia sono soggetti anche alle norme sul monitoraggio fiscale delle attività patrimoniali e finanziarie detenute all’estero, tra i quali figurano, i conti correnti, gli investimenti finanziari, le varie tipologie di fondi previdenziali, le partecipazioni societarie e i  beni immobili.

    La mancata inclusione dei beni detenuti all’etero nel quadro RW può comportare, nel caso specifico, sanzioni dal 3% al 15% del valore dell’attività non dichiarata per ciascun anno.

  • Rimborso credito IVA per soggetti passivi UE non stabiliti in Italia

    Rimborso credito IVA per soggetti passivi UE non stabiliti in Italia

    I soggetti passivi stabiliti in un altro Stato membro dell’UE, che abbiano nominato un rappresentante fiscale in Italia o si siano identificati direttamente ai fini IVA, possono chiedere il rimborso del credito IVA maturato nel nostro Paese tramite:

    1. Portale elettronico, ai sensi dell’art. 38-bis2 del DPR 633/72.
    2. Procedure ordinarie italiane (dichiarazione annuale e modello TR).

    L’IVA rimborsabile riguarda l’imposta assolta su:

    • Importazioni di beni.
    • Acquisti di beni e servizi in Italia, se detraibili ai sensi degli artt. 19, 19-bis1 e 19-bis2 del DPR 633/72.

    Procedura tramite portale elettronico

    • La richiesta è presentata nello Stato UE di stabilimento, che la trasmette all’Agenzia delle Entrate italiana.
    • Periodo di riferimento:
      • Trimestrale: minimo tre mesi, salvo il periodo residuo dell’anno.
      • Annuale: massimo un anno solare.
    • Termini di presentazione (Provv. Agenzia Entrate n. 53471/2010):
      • Rimborso trimestrale: dal primo giorno del mese successivo al trimestre fino al 30 settembre dell’anno seguente.
      • Rimborso annuale: dal 1° gennaio al 30 settembre dell’anno successivo.
    • Importi minimi per il rimborso:
      • 400 euro per richieste infrannuali.
      • 50 euro per richieste annuali.

    Condizioni per il rimborso tramite portale elettronico

    Il soggetto passivo non deve:

    • Avere una stabile organizzazione in Italia.
    • Aver effettuato operazioni territorialmente rilevanti, salvo eccezioni:
      • Operazioni soggette a reverse charge.
      • Prestazioni di trasporto e servizi accessori non imponibili (art. 9 DPR 633/72).
      • Operazioni ex art. 74-septies DPR 633/72.
    • Deve svolgere operazioni che danno diritto alla detrazione IVA nello Stato membro di stabilimento.

    La nomina di un rappresentante fiscale in Italia non preclude il rimborso tramite portale elettronico (Cass. 24207/2023 e 1031/2022; CGUE C-323/12 e C-242/19).

    Fatture valide per il rimborso

    Secondo la prassi (interpelli Agenzia Entrate nn. 339/2020, 359/2021, 147/2024, 236/2024), le fatture devono:

    • Essere intestate alla partita IVA del soggetto non residente.
    • Non essere incluse nelle liquidazioni periodiche e dichiarazioni annuali con la partita IVA italiana.

    Se la fattura è intestata alla partita IVA italiana, il rimborso avviene esclusivamente con le procedure ordinarie previste per i soggetti italiani (art. 38-bis DPR 633/72).

    Procedura ordinaria di rimborso IVA

    Per i soggetti identificati in Italia, il rimborso del credito IVA segue l’art. 30 DPR 633/72:

    • Annuale: Quadro VX della dichiarazione IVA, da presentare tra 1° febbraio e 30 aprile dell’anno successivo (art. 8 DPR 322/98).
    • Trimestrale: Modello TR, da inviare entro l’ultimo giorno del mese successivo al trimestre (art. 8, c. 2 DPR 542/99).
    • Importo minimo per il rimborso: 2.582,28 euro, senza ulteriori condizioni per i soggetti non residenti con rappresentante fiscale o identificazione diretta (art. 30, c. 2, lett. e) DPR 633/72).
  • Tassazione stock option

    Tassazione stock option

    Uno dei temi più dibattuti, soprattutto nell’ambito della mobilità internazionale di manager e dipendenti, riguarda la tassazione delle stock option.

    Definizione di stock option

    I piani di stock option conferiscono generalmente a dipendenti e amministratori il diritto di acquistare, dopo un periodo prestabilito, un certo numero di azioni a un prezzo predefinito.

    Questo diritto nasce dalla stipula di un accordo tra l’azienda e il lavoratore, in cui viene stabilito che, trascorso un determinato periodo, il lavoratore può convertire le opzioni ricevute in azioni della società (Risoluzione n. 29/E/2001 dell’Agenzia delle Entrate).

    Si tratta, quindi, di un diritto che consente di acquistare azioni della società in una data futura a un prezzo stabilito in anticipo.

    Le fasi principali del piano di stock option sono:

    • grant date: la data in cui viene concesso il diritto di opzione;
    • vesting date: il momento in cui il lavoratore può esercitare il diritto;
    • exercise date: la data effettiva di esercizio dell’opzione;
    • expiration date: il termine entro cui l’opzione deve essere esercitata.

    Trattamento fiscale

    Le stock option costituiscono una forma di retribuzione aggiuntiva per il lavoratore dipendente e, di conseguenza, sono assimilate ai fringe benefit e soggette a tassazione IRPEF, calcolata sulla differenza tra il valore normale e il prezzo di assegnazione.

    Ulteriori implicazioni fiscali si verificano nel caso di incasso di dividendi sulle azioni o di successiva vendita delle stesse

    Normativa fiscale internazionale

    Il regime fiscale internazionale delle stock option è regolato dal Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, che distingue due fasi:

    • vesting period: durante l’assegnazione degli strumenti finanziari e per tutto il periodo in cui non è possibile disporne liberamente, essi sono trattati come fringe benefit;
    • esercizio dell’opzione: una volta esercitato il diritto, si applica l’art. 13 della Convenzione, che considera il dipendente come azionista, con conseguente tassazione delle plusvalenze derivanti dalla crescita del valore del titolo o dalla sua cessione.

    Il Commentario OCSE all’art. 15 del Modello di Convenzione esamina, inoltre, aspetti legati alla mobilità internazionale dei lavoratori e all’impatto fiscale sulle stock option maturate durante periodi di residenza in diversi paesi.

    Secondo il Modello OCSE, la tassazione di questi strumenti finanziari avviene nel paese di residenza fiscale del soggetto alienante. Gli obblighi dichiarativi riguardano tre aspetti principali:

    • il reddito da lavoro dipendente derivante dall’assegnazione o dall’esercizio delle azioni;
    • i dividendi percepiti sulle azioni assegnate;
    • le plusvalenze derivanti dalla cessione delle azioni.

    Regime fiscale in Italia

    In Italia, i redditi da lavoro dipendente derivanti dall’assegnazione di azioni sono considerati compensi in natura e valutati secondo l’art. 51 co. 3 del TUIR, basandosi sul “valore normale”.

    Il reddito imponibile da lavoro dipendente è dato dalla differenza tra:

    • il “valore normale” delle azioni assegnate, come previsto dall’art. 9 del TUIR;
    • il prezzo pagato al momento dell’esercizio dell’opzione.

    Secondo la circolare 54/2008 dell’Agenzia delle Entrate, se il prezzo pagato è inferiore al valore normale del titolo, il lavoratore deve assoggettare la differenza a tassazione come reddito da lavoro dipendente.

    L’imponibilità si concretizza nel momento in cui le azioni vengono assegnate al dipendente, corrispondente alla data di esercizio dell’opzione (exercise date), indipendentemente dalla successiva emissione o consegna del titolo (circ. 09/09/2008 n. 54; risposta interpello 05/02/2020 n. 23).

    L’azienda erogante funge da sostituto d’imposta, applicando una ritenuta IRPEF a titolo di acconto, calcolata con aliquote progressive. Per le azioni non quotate, la valutazione si basa su perizia della società, mentre per quelle quotate si utilizza la media delle quotazioni dell’ultimo mese (art. 9 co. 4, lett. a, del TUIR).

    La tassazione avviene quindi in due momenti distinti:

    • al momento dell’esercizio, con aliquote IRPEF tra il 23% e il 43%, oltre alle addizionali;
    • eventualmente, al momento della vendita delle azioni, con un’imposta sul capital gain del 26%.

    L’eventuale plusvalenza è calcolata sulla differenza tra il prezzo di vendita e il prezzo di acquisto. Se la differenza tra valore delle azioni ed esercizio è già stata tassata come reddito da lavoro dipendente, tale valore diventa il prezzo di acquisto ai fini della tassazione del capital gain.

    Cessione di partecipazioni

    In caso di vendita, può generarsi una plusvalenza o una minusvalenza. Il reddito è determinato come differenza tra il corrispettivo percepito e il costo di acquisto assoggettato a tassazione. Le plusvalenze rientrano nei redditi diversi (art. 67 del TUIR) e sono tassate con aliquota del 26%.

    Dividendi

    Gli utili percepiti dai dipendenti come azionisti sono considerati redditi di capitale (art. 44 co. 1 lett. e del TUIR) e tassati al 26%, salvo diversa disciplina per utili provenienti da paesi a fiscalità privilegiata.

    Esempio di attribuzione al lavoratore

    Si supponga che la società A deliberi, in data 01/01/2020, un piano di stock option attraverso il quale intenda attribuire al lavoratore Tizio opzioni relative a 10.000 azioni, al prezzo di 2 euro ciascuna (valore totale 10.000 x 2 = 20.000 euro), esercitabili non prima del 30/06/2025.

    Scaduto il termine, ad esempio il 02/07/2025, Tizio decide di esercitare l’opzione e, siccome i titoli, in quella data, risultano avere un valore pari a 3 euro, realizza un maggior valore di 10.000 euro, importo che concorre a formare reddito imponibile da lavoro dipendente.

    Stock option e regime forfettario

    In caso di assegnazione di azioni a beneficio di un lavoratore in regime forfetario, concorre alla formazione del reddito soggetto ad imposta sostitutiva del 15% il valore normale delle azioni determinato ai sensi dell’art. 9 co. 4 del TUIR. Tale valore concorre alla formazione del reddito nell’esercizio di assegnazione e rileva ai fini del computo della soglia dei 85.000 euro per la permanenza nel regime.

    L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello 18/05/2022 n. 271, ha chiarito che non assume rilevanza, invece, quanto versato dall’imprenditore a titolo di strike price per l’acquisto delle azioni in quanto all’ammontare del valore normale sarà applicato il coefficiente di redditività ordinariamente previsto per l’attività esercitata.

    Stock option e regime degli impatriati

    Le stock option spesso maturano in più anni e vengono erogate successivamente, rendendo cruciale valutare lo status fiscale del percettore e il Paese in cui è stata svolta l’attività lavorativa. L’Agenzia delle Entrate, richiamando il principio di cassa del TUIR e la “maturazione territoriale” del § 2.2 del Commentario OCSE (art. 15), conferma che tali redditi sono imponibili nello Stato in cui è stata svolta l’attività, indipendentemente dal momento dell’erogazione.

    Secondo quanto riportato nell’ interpello n. 275/2022, se un reddito pluriennale riferito a lavoro svolto all’estero viene incassato in Italia durante la vigenza del regime impatriati, l’intero importo è imponibile in Italia, ma non beneficia dell’agevolazione. Tuttavia, l’imposta estera può essere recuperata ex art. 165 TUIR (circ. AdE n. 33/2020).

    Se il reddito è parzialmente maturato in Italia, solo questa quota rientra nel regime agevolato, calcolata in base ai giorni di lavoro svolti in Italia rispetto al totale.

    Un’ulteriore questione riguarda la tassazione dei redditi differiti tra il primo e il secondo quinquennio del regime di cui all’art. 16, DLgs. 147/2015: nell’interpello n. 854/2021 è stato chiarito che l’aliquota agevolata applicabile è quella vigente nell’anno di incasso. Tale problematica non si verifica più, invece, per coloro che beneficiano del nuovo regime degli impatriati di cui all’art. 5 del DLgs. 209/2023, in vigore dal 01/01/2024.

    Infine, per redditi maturati sotto il regime impatriati ma incassati dopo la sua scadenza, prevale il principio di cassa: saranno tassati ordinariamente senza agevolazioni (circ. AdE n. 33/2020, § 7.9).

    Ultimi pronunciamenti dell’Agenzia delle Entrate

    La risposta a interpello n. 81/2025 va in senso contrario a quanto appena detto. L’Agenzia delle Entrate ha esaminato il trattamento fiscale delle stock option nei rapporti transnazionali, giungendo a conclusioni differenti rispetto a quelle contenute in precedenti chiarimenti.

    Il caso analizzato riguarda un soggetto che ha avuto la residenza fiscale nel Regno Unito fino al 2023 e che è divenuto residente fiscale in Italia a partire dal 2024.

    Tale persona aveva sottoscritto con una società inglese, presso cui ha lavorato fino a dicembre 2023, un accordo di stock option articolato come segue:

    • un bonus relativo all’attività svolta nel Regno Unito nel periodo 2021-2023, erogato integralmente nel 2024 dalla società inglese;
    • un bonus riferito al lavoro prestato nei trienni 2022-2024 e 2023-2025, con competenza fiscale britannica rispettivamente per due terzi e un terzo, corrisposti nel 2025 e nel 2026;
    • ulteriori bonus relativi all’attività svolta successivamente, di competenza esclusivamente italiana, in quanto erogati dalla branch italiana del gruppo.

    Nonostante la natura di retribuzione differita di tali emolumenti, l’Agenzia delle Entrate ha confermato che il momento impositivo è rappresentato dalla data di effettiva corresponsione delle azioni.

    Applicando l’articolo 15, paragrafo 1 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito, l’Agenzia ha stabilito che, se un residente di uno Stato presta la propria attività lavorativa nello stesso Stato, spetta esclusivamente a quest’ultimo il diritto di tassare le retribuzioni percepite.

    Questo significa che qualora durante il vesting period il lavoratore abbia svolto la propria attività nel Regno Unito e fosse residente in tale Stato, il bonus deve essere assoggettato a tassazione esclusivamente nel Regno Unito, anche se il pagamento è avvenuto in un momento successivo, quando il beneficiario era ormai residente in Italia.

    Pertanto, il bonus relativo agli anni 2021-2023, in quanto legato ad attività lavorativa svolta nel Regno Unito da un soggetto residente in tale Stato, non è imponibile in Italia. Il premio relativo al periodo 2022-2024 è esente in Italia per 2/3, mentre quello relativo alle annualità 2023-2025 è esente in Italia per 1/3.

    Monitoraggio fiscale e quadro RW

    Ai sensi dell’art. 4 del DL 167/90, le attività finanziarie estere, incluse stock option e partecipazioni, devono essere dichiarate nel quadro RW del modello REDDITI o nel quadro W del modello 730.

    La risoluzione 73/2014 dell’Agenzia delle Entrate stabilisce che:

    • le stock option non cedibili non vanno dichiarate finché non scade il vesting period;
    • dopo il vesting period, vanno dichiarate solo se il prezzo di esercizio è inferiore al valore di mercato del sottostante;
    • i diritti di opzione cedibili vanno sempre dichiarati e assoggettati a IVAFE.

    Nel quadro RW, il valore iniziale è il prezzo di esercizio previsto dal piano, mentre il valore finale è il valore corrente del sottostante alla fine del periodo d’imposta.

    Le azioni acquisite tramite stock option devono sempre essere indicate nel quadro RW, anche se vendute contestualmente all’esercizio dell’opzione, per adempiere agli obblighi di monitoraggio fiscale e IVAFE. La valorizzazione si basa sul valore di mercato o, in assenza, sul valore nominale o di rimborso.

  • Vincite nei casinò a Las Vegas: tassazione in Italia

    Vincite nei casinò a Las Vegas: tassazione in Italia

    Un tema che viene affrontato raramente è quello della tassazione o meno delle vincite nei casinò.

    In base al comma 1-bis nell’art. 69 del TUIR “le vincite corrisposte da case da gioco autorizzate nello Stato o negli altri Stati membri dell’Unione Europea o in uno Stato aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo non concorrono a formare il reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo di imposta”.

    Questo significa che un residente fiscale Italiano non sarà assoggettato a tassazione come redditi diversi per i premi vinti nei casinò italiani, UE e SEE.

    Il principio è stato anche ribadito dalla Cassazione n. 13038 del 14 maggio 2021

    Cosa accade, invece, alle vincite realizzate in paesi extra UE? Ad esempio in uno dei casinò di Las Vegas.

    In questo caso, come chiarito dalla recente ordinanza n. 3879/2025 della Corte di Cassazione, non applica il comma 1-bis nell’art. 69 del TUIR, bensì il comma 1 in base al quale “i premi e le vincite di cui alla lett. d) del comma 1 dell’art. 67 costituiscono reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza alcuna deduzione”. La persona fisica residente in Italia che vince delle somme di denaro in un casinò extra UE è tenuta a dichiararla nel quadro RL del Modello Redditi e assoggettare il premio a tassazione IRPEF.

    La stessa Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti, all’art. 22, prevede la tassazione esclusiva delle vincite al casinò nello Stato di residenza del percettore del premio.

    Una situazione simile a quella di cui alla sentenza sopra menzionata, si è verificata in riferimento a vincite realizzate nel Principato di Monaco, anch’esso Paese extra UE, ed è stata trattata dalla Cassazione con la sentenza n. 24589/2020, la quale, anche in queto caso, ha statuito l’imponibilità in Italia del premio.

    Vale inoltre la pena di sottolineare che la norma prevede un regime di tassazione piena delle vincite, cioè al lordo delle spese sostenute per produrle.

  • Ritenuta sui dividendi distribuiti a società extra-UE: rimborso

    Ritenuta sui dividendi distribuiti a società extra-UE: rimborso

    Il contenuto esamina schematicamente la sentenza n. 509/2024 – CGT di Pescara in merito alla ritenuta sui dividendi di fonte italiana pagati ad una società statunitense.

    1. Contesto e Principio Violato

    • Decisione: La CGT di Pescara ha riconosciuto il rimborso alla società americana della differenza tra l’aliquota sulla ritenuta sui dividendi convenzionale (5%) e quella più favorevole applicata a società UE (1,2%).
    • Motivazione: Violazione del principio di libera circolazione dei capitali (art. 63 TFUE).

    2. Il Caso

    • Società coinvolta: Società americana con partecipazione in una società italiana.
    • Fatti:
      • Nel 2018 ha percepito dividendi con ritenuta del 5% (art. 10, co. 2, lett. a, Convenzione ITA-USA).
      • Ha contestato la mancata applicazione dell’aliquota ridotta dell’1,2% (art. 27, co. 3-ter, DPR 600/1973).
    • Argomentazione della società americana:
      • Disparità di trattamento tra società extra-UE e UE/SEE.
      • Violazione dell’art. 63 TFUE sulla libera circolazione dei capitali.
    • Replica dell’Agenzia delle Entrate:
      • Soggetti residenti e non residenti non sono equiparabili.
      • La società ricorrente non era beneficiario effettivo dei dividendi.

    3. Decisione della CGT

    • Accoglimento del ricorso: Diritto al rimborso della maggiore ritenuta sui dividendi subita.
    • Precedente richiamato: Cass. n. 21481/2022 su fondi d’investimento extra-UE.
    • Principio confermato: Applicabilità dell’aliquota ridotta (1,2%) anche a soggetti residenti in paesi terzi, in base all’art. 63 TFUE.

    4. Orientamento della Corte di Giustizia UE

    • Restrizioni ai movimenti di capitali vietate se dissuadono investimenti transfrontalieri.
    • Eccezioni ex art. 65 TFUE ammesse solo se non discriminatorie o restrittive in modo occulto.
    • Conclusione: La discriminazione verso la società americana viola il principio di non discriminazione e la libera circolazione dei capitali.

    5. Beneficiario Effettivo e Implicazioni Future

    • La CGT ha riconosciuto che la società americana era beneficiario effettivo dei dividendi.
    • La sentenza segue altre pronunce della CGUE sull’interpretazione conforme ai principi UE.
    • Possibili sviluppi: Nuove pronunce potrebbero estendere il rimborso ad altre società extra-UE (es. USA, UK) per dividendi distribuiti negli ultimi anni.
  • Cessione di partecipazioni e trasferimento di residenza

    Cessione di partecipazioni e trasferimento di residenza

    Nell’ambito delle Convenzioni Contro le Doppie Imposizioni (CDI), il trattamento fiscale delle plusvalenze da cessione di partecipazioni è regolato dall’articolo 13 del modello OCSE. Questo articolo stabilisce criteri di territorialità specifici, differenziando le modalità di imposizione a seconda della natura dei beni coinvolti.

    Regole generali

    In particolare, il principio di tassazione varia in base alla tipologia di asset oggetto della plusvalenza. Tra le principali categorie disciplinate rientrano:

    • Beni immobili, per i quali il diritto di tassazione spetta generalmente allo Stato in cui il bene è situato;
    • Beni mobili appartenenti a una stabile organizzazione, tassati nello Stato in cui la stabile organizzazione è localizzata;
    • Navi e aeromobili utilizzati nel traffico internazionale, che seguono regole particolari in base alla giurisdizione dell’impresa che li gestisce;
    • Altri beni, per i quali l’imposizione dipende dalle disposizioni specifiche previste dalle singole convenzioni.

    Queste distinzioni riflettono la volontà di bilanciare gli interessi fiscali degli Stati coinvolti, evitando fenomeni di doppia imposizione o doppia non imposizione.

    Per quanto riguarda la cessione di partecipazioni, la regola generale prevede la tassazione esclusiva della plusvalenza nello stato di residenza del cedente.

    Cessione di partecipazioni con contestuale trasferimento di residenza

    Tuttavia, alcune Convenzioni includono clausole che consentono l’imposizione anche nello Stato nel quale ha la residenza la società ceduta, a condizione che il cedente, residente nell’altro Stato, sia stato residente dello stesso Stato della società ceduta in un periodo immediatamente anteriore al trasferimento delle azioni o quote, generalmente fissato in 5 anni.

    Queste clausole sono state introdotte per impedire che un individuo, dopo aver trasferito la propria residenza fiscale in un altro Stato—spesso con una tassazione più favorevole—venda immediatamente le proprie partecipazioni in una società situata nel Paese di origine, ottenendo così una plusvalenza che sarebbe tassata esclusivamente nel nuovo Stato di residenza. Al contrario, la loro applicazione consente ai due Stati di esercitare un potere impositivo concorrente, con l’obiettivo di disincentivare trasferimenti di residenza temporanei o meramente strumentali.

    Un esempio piuttosto attuale, in ragione del possibile trasferimento di molti ex-non-dom dal Regno Unito all’Italia, è proprio la convenzione tra questi due paesi, che include una clausola che consente di assoggettare a imposta la plusvalenza, se il cedente è stato residente nel paese della fonte nei 5 anni precedenti l’alienazione e la plusvalenza non è soggetta ad imposta dello stato della residenza del cedente.

    Articolo 13

    Utili di capitale

    1. (…)
    2. (…)
    3. (…)
    4. Gli utili derivanti dalla alienazione di ogni altro bene diverso da quelli menzionati nei paragrafi precedenti del presente articolo sono imponibili soltanto nello Stato contraente di cui l’alienante è residente.
    5. Le disposizioni del paragrafo 4 del presente articolo non pregiudicano il diritto di uno Stato contraente di prelevare, conformemente alla propria legislazione, una imposta sugli utili, derivanti dalla alienazione di un qualsiasi bene, realizzati da una persona fisica che:
    6. è residente dell’altro Stato contraente; e
    7. è stata residente del predetto primo Stato contraente in un qualsiasi momento nel corso dei cinque anni immediatamente precedenti l’alienazione del bene; e
    8. non è soggetta ad imposta per tali utili nell’altro Stato contraente.

    Simili clausole riconoscono quindi all’ex Stato di residenza la facoltà di tassare determinati redditi secondo la propria normativa interna. Tuttavia, questo potere non è assoluto, ma incontra dei limiti. In particolare, esso viene meno quando la normativa interna esclude la tassazione dei non residenti, come avviene nella maggior parte dei casi per le partecipazioni non qualificate.

    Diversamente, la tassazione può essere applicata quando la normativa interna non prevede specifiche esenzioni per i non residenti. Questo è il caso delle partecipazioni qualificate, per le quali il potere impositivo dello Stato di origine è generalmente riconosciuto.

    Regime dei neo domiciliati

    Un’impostazione analoga è stata adottata dal legislatore nazionale nell’articolo 24-bis del TUIR, che disciplina il regime dei neo domiciliati. In particolare, il comma 1 esclude dall’imposta forfettaria di 200.000 euro le plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate nei primi cinque anni di applicazione del regime. Di conseguenza, tali plusvalenze restano soggette alla normale tassazione prevista dalla normativa vigente.

  • Lavoro dipendente svolto all’estero: come è tassato in Italia?

    Lavoro dipendente svolto all’estero: come è tassato in Italia?

    Dopo aver introdotto quando il reddito da lavoro dipendente svolto all’estero è tassato in Italia, nel presente contributo ci si concentra sulle modalità di imposizione, con un focus particolare sulle retribuzioni convenzionali, rimandando ad uno specifico articolo per i lavoratori frontalieri.

    I redditi da lavoro dipendente di fonte estera risultano imponibili in Italia secondo tre modalità alternative:

    • regime ordinario;
    • tassazione secondo le retribuzioni convenzionali;
    • tassazione secondo il regime dei lavoratori frontalieri.

    Regime ordinario

    È la casistica più semplice, nella quale occorre rideterminare il reddito estero secondo la normativa fiscale italiana, contenuta nell’art 51 co. 1 – 8 del TUIR.

    L’imposta estera da detrarre da quella italiana ai sensi dell’art. 165 del TUIR dovrebbe essere assunta in misura piena. Il credito per le imposte pagate all’estero verrà trattato in un articolo a parte.

    Retribuzioni convenzionali

    Se il reddito da lavoro dipendente è svolto all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto lavorativo, per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di 12 mesi, è applicabile il regime delle retribuzioni convenzionali, ex art. 51 co. 8-bis del TUIR, che consente di assumere quale base imponibile italiana non le somme e i valori effettivamente percepiti ma alcun importi determinati in modo forfetario in base al settore di attività.

    Per poter applicare le retribuzioni convenzionali devono essere rispettate una serie di condizioni:

    • il lavoratore continui a risultare fiscalmente residente in Italia ex art. 2 del TUIR;
    • il lavoro dipendente sia prestato all’estero;
    • l’attività di lavoro dipendente sia svolta all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro;
    • l’attività di lavoro dipendente sia svolta all’estero per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di 12 mesi.

    In merito alla continuità ed esclusività si evidenzia quanto segue:

    • che il contratto di lavoro deve prevedere la prestazione in via esclusiva del lavoro all’estero, con conseguente esclusione dei dipendenti in trasferta (C.M. 16.11.2000 n. 207/E); 
    • che la prestazione lavorativa deve materialmente essere svolta integralmente all’estero (ris. Agenzia Entrate 11.9.2007 n. 245);
    • che il regime in esame può trovare applicazione anche se il datore di lavoro è estero (circ. Agenzia Entrate 21.5.2014 n. 11);
    • che non impedisce l’applicazione del regime il fatto che la prestazione sia svolta in più Stati (consulenza giuridica DRE Emilia Romagna 13.5.2019 n. 909-4/2019).

    Qualora, invece, il lavoratore dipendente presti la propria attività lavorativa all’estero per meno di 183 giorni nell’arco di 12 mesi, la tassazione è realizzata in via ordinaria sulla base imponibile la retribuzione effettivamente corrisposta.

    Se ricorrono le condizioni per l’applicazione delle retribuzioni convenzionali, ai fini della determinazione della base imponibile relativa all’attività prestata all’estero si deve fare riferimento ai parametri definiti annualmente con apposito DM. In tal caso, il sostituto d’imposta, se presente, dovrà effettuare le ritenute sulla base delle retribuzioni convenzionali, salvo poi operare le necessarie rettifiche in sede di conguaglio, qualora vengano meno i requisiti del co. 8-bis.

    Le retribuzioni sono contenute in apposite tabelle allegate ai DM, determinate in base ai settori produttivi, in cui le retribuzioni sono fissate a seconda delle qualifiche e delle fasce retributive. Il regime non può essere applicato se l’attività svolta all’estero non rientra tra quelle previste dai DM

    Nel caso in cui le retribuzioni convenzionali dovessero superare quelle effettive, non sarebbe possibile assoggettare a tassazione il reddito effettivamente prodotto (contra C.T. Prov. Macerata 3.3.2015 n. 67/2/15).

    Nel caso in cui il reddito da lavoro dipendente svolto prodotto all’estero concorra parzialmente alla formazione del reddito complessivo, anche l’imposta estera va ridotta in misura corrispondente. Come chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella ris. 8.7.2013 n. 48 e nella circ. 5.3.2015 n. 9, in questi casi occorre “riparametrare” l’imposta estera in base al rapporto tra la retribuzione convenzionale e la retribuzione che sarebbe stata tassabile in Italia in via ordinaria.

    Lavoratori frontalieri

    I lavoratori frontalieri possono beneficiare di disposizioni agevolative sia da parte di norme speciali interne, che prevedono un’apposita franchigia, pari a 10.000 euro di reddito, non assoggettato ad imposta, sia da parte di accordi internazionali, che riservano il beneficio della tassazione esclusiva nello Stato dove è svolta l’attività o nello Stato di residenza.

    Sono tre i requisiti di fondo per definire i frontalieri:

    • la residenza fiscale italiana del lavoratore;
    • il fatto che il lavoro sia prestato nello Stato estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto (e non si tratti di mere attività occasionali prestate oltreconfine);
    • il fatto che il lavoro sia prestato in zone di frontiera, o in Stati limitrofi.

    Pur non essendo un requisito previsto dalla norma, l’Agenzia delle Entrate, nella circ. 15.1.2003 n. 2 prevede che il regime dei frontalieri sia riservato ai soggetti che quotidianamente si recano all’estero per svolgere la prestazione lavorativa.

    Il regime è, quindi, precluso a quei soggetti che, pur rispettando gli altri requisiti, soggiornano stabilmente nella zona di frontiera dello Stato estero dove è svolta l’attività lavorativa, ai quali, invece, possono essere applicate le retribuzioni convenzionali, qualora nel ricorrano tutti i presupposti di legge.

    Per maggiori informazioni sul lavoro dipendente svolto all’estero da parte dei frontalieri e su particolari accordi internazionali, si rimanda allo specifico contenuto.